24 Luglio 2024 | Ilaria Cazziol
L’Italia è Pronta ad Accogliere i Nomadi Digitali? Tra Opportunità e Sfide
Domande e risposte dalla Prima Conferenza sul Nomadismo Digitale in Italia, per analizzare lo stato del nostro Paese come destinazione per lavoratori da remoto e nomadi digitali e il loro impatto.
Il nomadismo digitale è cambiato molto negli ultimi anni. O meglio, non è tanto lui a essere cambiato, quanto il suo “status” nel panorama internazionale: un tempo considerato uno stile di vita di nicchia, è ora una tendenza in rapida crescita, specialmente nel periodo post-COVID.
Oggi il nomadismo digitale sta sperimentando il suo periodo più fiorente: con le frontiere nuovamente aperte, l’accettazione consolidata che la produttività può essere mantenuta anche lavorando da remoto, e spinto dai venti di cambiamento culturale nella società e nel mondo del lavoro, un numero crescente di persone si identifica come nomadi digitali.
Questo cambiamento ha aperto nuove prospettive e sfide, sia per gli individui che per le comunità e i Paesi che si prefiggono di attrarre questa categoria di persone, che meritano di essere esplorate.
Sono tante le domande a cui rispondere: cosa significa realmente essere un nomade digitale oggi? Come sta evolvendo questo fenomeno? Cosa significa “essere pronti”, come Paese Italia, ad accoglierli? E cosa manca per esserlo davvero, al di là dei luoghi comuni e degli slogan di marketing?
Per rispondere a queste domande, l’Associazione Italiana Nomadi Digitali ha recentemente organizzato una conferenza che ha messo in luce la crescita esponenziale di offerte per questo “nuovo target” sul territorio italiano, ma anche le sue molteplici sfide e i limiti.
Durante la Prima Conferenza sul Nomadismo Digitale in Italia abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare voci diverse, italiane e non, provenienti sia da chi si occupa di accoglierli, sia da chi li studia o sta cercando di implementare soluzioni atte a soddisfare le loro esigenze, e di confrontarci su temi cruciali che riguardano il nomadismo digitale.
Da un lato, abbiamo celebrato la libertà e la flessibilità che questo stile di vita offre, dall’altro, abbiamo affrontato questioni più complesse come l’impatto sociale ed economico che i nomadi digitali possono avere sulle comunità locali.
Per scoprire, come il manifesto della conferenza stesso auspicava, “quali sono le opportunità, i vincoli, le criticità e le sfide per rendere il nostro Paese una destinazione realmente attrattiva, accogliente e ospitale per questa nuova generazione di professionisti, imprenditori e lavoratori da remoto che uniscono vita, lavoro e viaggio fino a fonderli insieme”.
Nomadi digitali: un nuovo “target” dell’industria turistica?
I nomadi digitali sono sempre meno (se mai lo sono stati, poi) un “target” uniforme di professionisti dalle caratteristiche simili, e sempre più un’accozzaglia di diverse personalità, motivazioni, modalità lavorative e stili di vita.
Dal giovane freelance al senior quasi prossimo alla pensione, dal lavoratore dipendente con possibilità di lavorare da remoto a (perché no) lo studente universitario che si sposta per brevi periodi di studio, passando per famiglie di tutte le tipologie e per qualsiasi altra modalità lavorativa e di vita che preveda la libertà di un “abitare temporaneo” nei luoghi.
Difficile parlare di un target, quindi.
Sono, piuttosto, sempre più dei sotto-gruppi di persone, accomunate da valori e volontà di creare uno stile di vita che li rispecchi, in compagnia di altre persone simili a loro.
Nonostante questo, i tentativi di definire questo “nuovo target” si sono moltiplicati negli anni, spesso dando origine a sempre più confusione complici anche i tanti anglicismi utilizzati in modo improprio.
Dalla “workation”, che spesso ha finito per essere interpretata come uno stacanovista “lavorare in vacanza”. Passando per lo “smart working”, che molte società italiane hanno adottato ma che condivide poco o nulla con il vero lavoro da remoto, quello che abilita la libertà caposaldo del nomadismo digitale.
Ma soprattutto il fraintendimento principe, il significato stesso di nomadismo digitale: molti lo hanno associato a una vita nomade nel senso antropologico del termine, a un vivere in viaggio, a un non avere una base…ma la verità è molto più varia e colorata di così, con nomadi digitali che viaggiano perennemente e altri che vivono in modo semi-stanziale, alcuni che hanno sfruttato la libertà concessa dal lavoro da remoto per ridefinire il proprio concetto di “casa” e di “origini”, e tutto ciò che sta nel mezzo.
È fondamentale allora spostare il focus dal semplice definire chi sia o cosa rappresenti il nomade digitale, per concentrarsi piuttosto sul comprendere la natura del cambiamento in corso. Dal dove siamo, al dove stiamo andando.
Come sostennero per primi Tsugio Makimoto e David Manners già negli anni ’90, grazie all’evoluzione tecnologica stanno emergendo nuove comunità di lavoratori itineranti. Questi individui, non più legati a una specifica geografia, secondo i due autori avrebbero spinto i governi futuri a competere per attrarli e trattenerli (i vari visti per nomadi digitali che spuntano come funghi ovunque ci confermano che siamo in questa fase).
In questo contesto, sempre secondo uno studio di quasi trent’anni fa, un declino del nazionalismo tradizionale avrebbe lasciato spazio a una nuova forma di cittadinanza globale, dove l’identità non sarebbe più stata definita dal Paese di origine, ma piuttosto da tribù o comunità basate su stili di vita e valori condivisi.
Bene, bellissimo. Ma ora, come arrivare a questa nuova fase “matura” del nomadismo digitale, soprattutto qui in Italia, senza cadere negli stereotipi e negli errori commessi dai primi Paesi che si sono lanciati a rincorrere questo famoso nuovo “target”?
Le risposte che l’industria turistica non può dare
Ma come si fa ad attrarre, o meglio a prepararsi all’arrivo, di individui che non hanno le caratteristiche con cui finora abbiamo identificato i vari segmenti di clienti nell’industria turistica, né in quella lavorativa?
I nomadi digitali non hanno le necessità dei turisti, perché hanno bisogno di spazi adeguati al lavoro, di tempi più lunghi di permanenza, di una comunità locale che li integri e di una di “simili” che li accolga.
Né possono semplicemente sostituire i turisti in bassa stagione, come invece stanno cercando di fare molti Paesi, perché non possiamo pensare di cacciarli da case e hotel quando il target dei vacanzieri dell’alta stagione affolla spiagge e borghi.
Questo pone una serie di sfide all’accoglienza dei nomadi digitali, tra cui la prima di cui gli operatori del settore lamentano è la mancanza di alloggi pronti all’uso.
Questi professionisti cercano spazi che non solo siano confortevoli per la vita quotidiana, ma che siano anche funzionali per il lavoro a distanza. Che siano disponibili per periodi di tempo abbastanza lunghi da superare quelli inquadrabili nelle locazioni brevi (cioè pochi giorni) ma inferiori a quelle transitorie (18 mesi). E che abbiano anche costi sostenibili, più simili a quelli degli affitti a lungo termine che non ai prezzi dei soggiorni turistici.
Insomma, un bel cocktail di necessità, a cui il mercato italiano (ma forse quello di nessun Paese, in effetti) era pronto, come ci ha confermato Francesco La Commare di FIAIP (Federazione Italiana Agenti Immobiliari Professionali) durante la conferenza.
E allora la soluzione non può limitarsi a convertire temporaneamente strutture turistiche in bassa stagione, ma deve fornire risposte nuove. Che probabilmente non è compito dell’industria turistica dare, perché appunto quella deve rispondere a esigenze diverse.
Ma non bastano nemmeno uno spazio di co-working e un wifi per rendere un borgo o qualsiasi altro luogo attraente per i nomadi digitali. Perché poi, se non c’è niente da fare, per quanto tempo possono stare questi individui a contemplare la bellissima vista dalla finestra mentre lavorano con un’ottima connessione?
Dall’altra parte, le tematiche di innovazione sociale sono una delle opportunità maggiori da cogliere, e quella su cui molte attività e associazioni si stanno concentrando. I nomadi digitali portano infatti con sé nuove idee e competenze che possono arricchire le comunità locali.
Ma per sfruttare al meglio questo potenziale, bisogna creare un ambiente che favorisca l’interazione e lo scambio culturale, ovvero non solo fornire spazi di lavoro condivisi, ma anche organizzare eventi, workshop e attività che incoraggino la collaborazione tra i nomadi digitali e i residenti locali, senza portare a tensioni o conflitti. È il tema del difficile equilibrio tra il mantenimento dell’identità culturale locale e l’accoglienza di nuovi stili di vita, che già il turismo classico ha dovuto affrontare – spesso con scarso successo.
Bisogna smettere allora di guardare ai nomadi digitali come un nuovo target di turisti, di investire fondi per attrarli con campagne “turistiche” su bellezze del territorio, arte e buona cucina, e creare una nuova modalità basata su presupposti completamente nuovi: quelli che permettano un abitare temporaneo nei luoghi basato su interessi e valori specifici, supportato sia dai tanti co-working e co-living che stanno emergendo sul territorio, ma soprattutto da politiche e normative illuminate che riconoscano i nomadi digitali nella loro unicità, e non come una “novità turistica” della stagione.
Tra attrazione e gentrificazione. Evitare gli errori degli altri Paesi
Photo Fox / Pexels
Ma neppure i nomadi digitali possono essere trattati come portafogli ambulanti da “attirare” con sgravi fiscali.
Anzi, i primi risultati delle politiche di attrazione dei nomadi digitali che alcuni Paesi hanno implementato in questi anni, come il Messico o il Portogallo, stanno facendo emergere in maniera evidente le ombre che si nascondono dietro le luci inizialmente dipinte dai giornali. Ombre fatte di disparità sociale, gentrificazione, insostenibilità sociale, etc.
A tutte le latitudini nei grandi e storici “hub per digital nomads”, da Lisbona a Città del Messico, negli anni dopo il Covid sono scoppiate proteste e apparsi cartelli che indicavano un’amara associazione: “un nomade digitale = molti nomadi forzati”.
E come può essere diverso, se i visti che i governi emettono per attrarre questo target di professionisti puntano quasi sempre a ridurre il peso fiscale per loro, ma al contempo hanno dei vincoli di “salario minimo” per poterli richiedere che possono essere anche 20, 30 volte quello che è lo stipendio medio di un local?
Basta pensare che il requisito di accesso a questo tipo di visto in Thailandia è uno strabiliante 80.000$ l’anno. Temi che si potevano ignorare quando, fino a qualche anno fa, i numeri dei nomadi digitali nel mondo erano infinitesimali. Ma ora che è un fenomeno di massa, hanno impatti potenzialmente devastanti.
Le politiche di accoglienza devono quindi essere attentamente pianificate per garantire che i benefici del nomadismo digitale siano distribuiti equamente e in relazione alla ricchezza del Paese ospitante, per evitare problemi come la gentrificazione, l’aumento sconsiderato dei prezzi degli alloggi o addirittura il rischio di annullamento della cultura locale (Bali è un caso eclatante).
Questa è forse la parte più complessa, perché si tratta di portare nelle agende politiche non solo dei singoli comuni, ma delle Regioni e dello Stato, il “problema del nomadismo digitale”, o meglio ciò che potrebbe velocemente trasformarsi da opportunità a enorme danno se non ben gestito. Perché se da una parte sono bellissime le innumerevoli iniziative di cittadine in via di estinzione che si riorganizzano per attirare i cervelli (e i soldi) dei lavoratori da remoto, dall’altra è molto scivolosa la discesa verso l’altro lato della medaglia.
I piccoli borghi italiani, gioielli nascosti tra le colline e le montagne, ricchi di storia e tradizioni ma spesso dimenticati dal turismo di massa, possono vivere una nuova era grazie ai nomadi digitali. Questi portano nuova vita, idee fresche e, non meno importante, un flusso economico che può aiutare a rivitalizzare economie locali stagnanti. Ma la loro presenza può creare tensioni con i residenti.
Perché il nomadismo digitale non è solo una questione di spostarsi da un luogo all’altro. È un modo di vivere che può essere molto diverso da quello delle comunità locali.
E qui nasce la sfida: come possiamo assicurarci che l’arrivo dei nomadi digitali sia un’opportunità per tutti e non una fonte di divisione?
La risposta sta nel costruire ponti. Ponti fatti di comprensione, rispetto e collaborazione. Dobbiamo incoraggiare i nomadi digitali a immergersi nelle culture locali, a partecipare alla vita quotidiana dei borghi e a contribuire in modo significativo alle comunità che li ospitano. Allo stesso tempo, è fondamentale che le comunità locali siano aperte a questa nuova ondata di “residenti temporanei”, vedendoli non come estranei, ma come una risorsa preziosa.
In alcune aree, questo processo sta già avvenendo. Ad esempio, in alcuni borghi si stanno creando spazi di coworking che non solo offrono un luogo di lavoro per i nomadi digitali, ma diventano anche centri di incontro e scambio culturale tra locali e visitatori. Questi spazi diventano luoghi di co-creazione, dove idee e progetti possono nascere e crescere, alimentati dalla diversità di esperienze e prospettive.
Ne abbiamo sentite molte di testimonianze così, nei giorni della Conferenza: piccoli comuni in cui si è formato davvero un ecosistema virtuoso tra chi viene e chi resta (e in cui a questo punto spesso anche chi credeva di andarsene decide di restare), come Start Working Pontremoli in Toscana o La rivoluzione delle seppie a Belmonte Calabro.
Come ha giustamente sottolineato Giovanni Teneggi, uno dei massimi esperti di cooperative internazionali, durante la Conferenza, “bisogna passare dal considerarlo come un impatto, quello dei nomadi digitali, a un patto tra cittadini residenti e abitanti temporanei”.
Secondo lui le società cooperative rappresentano un modello vitale per sostenere coloro che scelgono di vivere in un determinato luogo insieme a persone che condividono la stessa decisione, trasformando i “vuoti”, ovvero gli spazi e le opportunità inutilizzati, in risorse preziose. Le cooperative possono essere un mezzo per portare queste comunità nel futuro, con i nomadi digitali come veri e propri soci temporanei, contribuendo così all’economia locale e alla crescita.
L’Approccio dell’Associazione Italiana Nomadi Digitali
Al centro di tutte queste dinamiche serve un’entità super-partes che aiuti a riunire i singoli per creare un’offerta condivisa, collaborativa e coordinata. La nostra recente conferenza ha messo in luce proprio questo genere di iniziative dell’Associazione.
Una cabina di regia che coinvolga non solo l’industria turistica, ma anche la politica, le cooperative e le comunità locali. Questo approccio multidimensionale è fondamentale per garantire che il nomadismo digitale non sia solo un fenomeno di passaggio, ma un cambiamento sostenibile e benefico per tutti.
Ed è fondamentale la parte di studio e analisi della situazione di cui i nostri report sono figli: se il primo ha puntato a una visione quantitativa, basata su domande e risposte a grandi numeri di nomadi digitali italiani che seguivano il sito Nomadidigitali.it, e il secondo è stato più qualitativo, con interviste a professionisti da remoto di vari Paesi, con il terzo report andremo ad affrontare proprio il tema caldo dei territori, per rispondere alla grande domanda: sono pronti?
Questo studio si concentrerà su cosa manca, chi sta lavorando per migliorare l’accoglienza e quali sono le migliori pratiche da seguire.
Perché è di fondamentale importanza analizzare a fondo il settore del nomadismo digitale
Non si tratta solo di numeri e statistiche, ma di comprendere le dinamiche sociali, economiche e culturali che questo fenomeno porta con sé, per non adottare politiche miopi e magari controproducenti nel lungo termine, ma creare piuttosto un percorso virtuoso che possa portare davvero l’Italia a diventare una meta non solo attrattiva, ma anche sostenibile e di mutuo vantaggio per i nomadi digitali da tutto il mondo.